Stanchezza
Ho lasciato Parigi e anche la Francia perché la torre Eiffel aveva finito per annoiarmi troppo.
Non solamente la si vedeva dappertutto, ma la si trovava dappertutto, fatta di tutti i materiali conosciuti, esposta in tutte le vetrine, incubo inevitabile e straziante.
Non è lei sola, del resto, che mi ha fatto venire un desiderio irresistibile di stare per qualche tempo da solo, ma tutto quello che è stato fatto accanto a lei, sopra, sotto e nei paraggi.
Come hanno osato i giornali, a proposito di questa carcassa metallica, parlarci di nuova architettura, visto che l’architettura, la più incompresa e la più dimenticata delle arti contemporanee, è forse anche la più estetica, la più misteriosa e la più ricca di idee?
Essa ha avuto attraverso i secoli il privilegio di simboleggiare, per così dire, il proprio tempo, di riassumere, con alcuni monumenti tipici, il modo di pensare, di sentire e di sognare di un popolo e di una civiltà.
Un piccolo numero di templi, chiese, palazzi e castelli racchiude quasi tutta la storia dell’arte del mondo e, con l’armonia delle linee e il fascino dell’ornato, esprime ai nostri occhi meglio dei libri tutta la grazia e la grandezza di un’epoca.
Mi domando quale sarà il giudizio sulla nostra generazione se qualche sommossa non provvederà a sbullonare questa alta e sottile piramide di scale di ferro, scheletro sgraziato e gigantesco, la cui base sembra fatta per sorreggere un formidabile monumento di Ciclopi e che termina invece nel profilo ridicolo e sottile di una ciminiera di fabbrica.
Si dice che essa rappresenta la soluzione di un problema. Sia pure, - ma non è servita a niente! – e a questa concezione antiquata di rinnovare l’ingenuo tentativo di costruire la torre di Babele preferisco quella che ebbero, già nel dodicesimo secolo, gli architetti del campanile di Pisa.
L’idea di costruire questa graziosa torre con otto piani di colonne di marmo, pendente come se stesse per cadere da un momento all’altro, di dimostrare ai posteri stupefatti che il centro di gravità non è che un inutile pregiudizio da ingegneri, del quale i monumenti possono fare a meno, essere ugualmente affascinanti e richiamare dopo sette secoli più visitatori meravigliati di quanti ne attirerà la torre Eiffel in sette mesi, costituisce certamente un problema – dato che il problema c’è – più originale di questa gigantesca opera da calderaio, imbiancata per degli occhi d’Indiani.
So che, secondo un’altra versione, il campanile si è inclinato da solo. Chi lo sa? Il bel monumento conserva il suo segreto discusso e impenetrabile.
D’altra parte, della torre Eiffel m’importa poco. E’ stata soltanto il faro di una kermesse internazionale, secondo la frase di rito, il cui ricordo mi ossessionerà come l’incubo, la visione concreta dell’orrendo spettacolo che la folla che si diverte rappresenta per un uomo stanco.
Mi sono guardato bene dal criticare l’Esposizione universale, questa colossale impresa politica che ha mostrato al mondo nel momento in cui occorreva farlo, la forza, la vitalità, l’attività, la ricchezza inesauribile di questo paese sorprendente: la Francia.Abbiamo dato un grande piacere, un gran divertimento e un grande esempio ai popoli e alle classi borghesi. Si sono divertiti di tutto cuore. Abbiamo fatto bene ed hanno fatto bene.
Ho solamente constatato, sin dal primo giorno, che io non sono fatto per questo genere di piaceri.
Dopo aver visitato con profonda ammirazione la galleria delle macchine e le fantastiche scoperte della scienza, della meccanica, della fisica e della chimica moderne; dopo aver constatato che la danza del ventre è divertente solo nei paesi in cui si agitano ventri nudi e che le altre danze arabe hanno fascino e colore solo nelle piazzeforti d’Algeria, mi sono detto che, dopotutto, andarci qualche volta sarebbe stata un’impresa faticosa ma distraente, dalla quale riposarsi a casa propria o presso gli amici.
Non avevo neanche lontanamente pensato a quello che stava per diventare Parigi invasa dal mondo intero.
Fin dalla mattina presto, le strade sono gremite e sui marciapiedi scorre una folla che è come l’acqua di un torrente in piena. Tutti vanno verso l’Esposizione o ne stanno venendo o ci ritornano. Sulla carreggiata, le vetture sono come i vagoni di un treno senza fine. Non ce n'è una libera e nessun cocchiere accetta di condurvi in alcun luogo che non sia l’Esposizione o la rimessa, quando è l’ora del cambio. Nessun coupé aux cercles. Tutti lavorano per l’avventuriero [ricconi straniero; al ristorante non vi sono tavoli liberi e non vi è un amico che ceni a casa propria o che acconsenta a cenare con voi. Quando lo si invita, accetta solo a condizione che si vada a banchettare sulla torre Eiffel. E’ più allegro. Come per una parola d’ordine, tutti sono d’accordo di andarci ogni giorno della settimana, a pranzo e a cena.
Io trovavo legittimo che si andasse a mangiare una volta o due, con disgusto ma anche con curiosità, alla mensa dei bettolieri aerei nel caldo, nella polvere, nella puzza, in mezzo al popolino un po’ brillo e madido di sudore, tra le carte unte che si trascinano per terra e che svolazzano ovunque, nell’odore di salumi e di vino rovesciato sui tavoli, nell’alito di trecentomila bocche che emettono zaffate di quello che hanno mangiato, nel contatto gomito a gomito, nello sfioramento, nel viluppo di carne accaldata, nel sudore congiunto di tutti i popoli che seminano le loro pulci sui sedili e lungo le strade, trovavo stupefacente che la buona società, la società d’élite, la società fine e manierata che di solito è nauseata dal popolo che pena e fatica per vivere, cenasse tutte le sere in quella sporcizia e in quella calca.
Questo prova, in modo definitivo, il trionfo completo della democrazia.
Non vi sono più caste né razze né epidermidi aristocratiche. Ormai non vi sono che persone ricche e persone povere. Nessun’altra classificazione differenzia i ceti della società contemporanea.
A questa Esposizione universale ha trionfato un’aristocrazia di un altro ordine, l’aristocrazia della scienza o, meglio, dell’industria scientifica.
Quanto alle arti, esse spariscono. Nell’élite della nazione, che ha osservato senza protestare l’orripilante decorazione della cupola centrale e di alcuni edifici vicini, se ne è cancellato il senso stesso.
Il gusto italiano moderno ci vince e il contagio è tale che gli spazi riservati agli artisti in questo grande bazar popolare e borghese che sta per chiudere, hanno assunto aspetti di propaganda e di vetrina fieristica.
Non avrei nulla da ridire sull’avvento e sul regno degli esperti scientifici se la natura della loro opera e delle loro scoperte non mi obbligasse a constatare che essi sono, prima di tutto, degli esperti commerciali.
Forse non è colpa loro, ma si ha l’impressione che il corso dello spirito umano venga arginato fra due muri che non valicherà mai più: l’industria e le vendite.
Agli albori della civilizzazione, l’anima dell’uomo si è dedicata all’arte. Ma si direbbe che una divinità gelosa gli abbia detto: “Ti proibisco di rivolgere ancora la mente a queste cose. Pensa soltanto alla tua vita animale e io ti lascerò fare un sacco di scoperte.”
In effetti, la forte emozione ammaliatrice dei secoli d’arte oggi sembra spenta, mentre sono nati degli spiriti di tutt’altro ordine che hanno inventato macchine di ogni genere, apparecchi sorprendenti, meccanismi complessi quanto gli organismi viventi, che combinano sostanze per ottenere risultati stupefacenti e ammirevoli. Tutto questo può servire alle necessità fisiche dell’uomo oppure può ucciderlo.
Le concezioni ideali, come la scienza pura e disinteressata di Galileo, Newton, Pascal ci sembrano negate, mentre la nostra immaginazione sembra attratta dal desiderio di speculare sulle scoperte utili all’esistenza.
Il genio di chi, partito dalla caduta di una mela, è giunto, con un balzo del pensiero, alla grande legge che regge i mondi, non sembra forse nato da un germe più divino dello spirito sagace degli inventori americani, dei miracolosi fabbricanti di campanelli, di megafoni e di apparecchi luminosi?
Non è questo il vizio segreto dell’anima moderna, il segno della sua inferiorità nel momento del trionfo?
Ho sentito che mi sarebbe piaciuto rivedere Firenze e sono partito.
La notte
Siamo usciti dal porto di Cannes alle tre del mattino, in tempo per raccogliere l’ultima brezza che di notte spira da terra verso il mare, prima che un soffio leggero spinga il nostro yacht a vela verso la costa italiana.
E’ un battello di venti tonnellate di colore bianco con un impercettibile filo dorato che lo circonda, come un sottile cordoncino sul fianco di un cigno. Le vele sono di tela fine e, sotto il sole d’agosto che dardeggia sull’acqua, sembrano ali di seta argentata spiegate nel firmamento azzurro. I suoi tre fiocchi, leggeri triangoli gonfiati dal vento, sono tesi in avanti come se stessero per librarsi in aria e la grande vela di trinchetto è molle, sotto la freccia aguzza che innalza verso il cielo la sua punta scintillante, a diciotto metri sopra il ponte. Dietro, la vela di mezzana, sembra dormire.
Caduta l’ultima brezza, ben presto sonnecchiano tutti in questo pomeriggio d’estate sul Mediterraneo. Il sole feroce riempie il cielo e trasforma il mare in una lamina molle e azzurrognola, immobile e piatta, addormentata anch’essa sotto a una luccicante lanugine di foschia, che sembra sudore emesso dall’acqua.
Malgrado le tende che ho fatto montare per proteggermi, sotto le vele il calore è tale che scendo nella sala a gettarmi sul divano.
L’interno è fresco. Il battello, costruito per navigare nei mari del Nord e per resistere alle mareggiate, è profondo. Su questa piccola casa galleggiante, stando un po’ stretti c’è posto per sei o sette persone, fra equipaggio e passeggeri, e in sala ci si può sedere a tavola in otto.
La parte interna è in legno di pino del nord verniciato, con incorniciature di teck, rischiarato dal colore vivace dell’ottone delle serrature, delle guarnizioni e dei candelieri, che sono il lusso degli yacht.
Non si ode alcun rumore, nulla. Com’è bizzarro questo cambiamento, dopo il clamore di Parigi! Ogni quarto d’ora, il marinaio assopito al timone tossicchia e sputa. In questo silenzio del cielo e del mare il ticchettio della pendola, appesa al tramezzo di legno, sembra fragoroso. E questo lieve rumore, il solo a turbare il riposo assoluto degli elementi, mi dà il senso delle solitudini assolute, dove i mormorii del mondo, soffocati a qualche metro dalla loro superficie, sono impercettibili nel silenzio universale.
In questa afosa giornata estiva, sembra discendere e diffondersi sul mare immobile un’emanazione della quiete eterna dello spazio. E’ qualcosa di opprimente, di irresistibile, di soporifero, di spossante, come il contatto con il vuoto infinito. La volontà viene a mancare, il pensiero si arresta e il sonno si impadronisce del corpo e dell’anima.
Quando mi sono svegliato, scendeva la sera. Un’inattesa brezza crepuscolare ci aveva spinti fino al tramonto.Eravamo davanti a Sanremo, vicino alla costa, ma senza speranze di raggiungerla. Ai piedi dell’alta montagna grigia, erano distesi altri paesi e cittadine, che sembravano panni bianchi stesi ad asciugare sulla spiaggia. Lungo i pendii delle Alpi, una leggera foschia copriva le valli salendo verso la sommità e le cime disegnavano una lunga linea dentellata contro il cielo rosa e lilla.
Scese la notte e la montagna scomparve, mentre lungo la costa si accendevano i fuochi a fior d’acqua.
Dall’interno dello yacht usciva un buon odore di cucina, che si mescolava gradevolmente a quello fresco dell’aria marina.
Dopo aver cenato, mi distesi sul ponte. La tranquilla giornata di navigazione aveva ripulito il mio spirito, come un colpo di spugna su di un vetro appannato; nella mia mente si affollavano i ricordi della vita che avevo appena lasciato, le persone che avevo conosciuto, osservato e amato.
Niente fa viaggiare lo spirito e vagare l’immaginazione quanto l’essere soli fra cielo e mare, in una notte calda. Mi sentivo eccitato, vibrante, come se avessi bevuto vino inebriante, respirato etere o amato una donna.
Il fresco della notte inumidiva la pelle di un velo di bruma salata. Il leggero raffreddamento dell’aria dava un piacevole brivido che percorreva le membra, entrava nei polmoni, deliziava il corpo e lo spirito nella loro immobilità.Chi riceve sensazioni attraverso tutto il corpo e non solo attraverso gli occhi, la bocca, l’odorato o le orecchie, è più felice o infelice?
L’eccitabilità nervosa, malata, dell’epidermide e degli altri organi, che trasforma in emozione le più piccole impressioni fisiche e che, a seconda della temperatura della brezza, dei profumi della terra e del colore del giorno, infligge sofferenza e tristezza, ma dà anche gioia, è una facoltà rara e terribile.
E’ una fortuna o una sfortuna non poter entrare in un teatro, perché il contatto con la folla scombussola l’organismo, non poter accedere a una sala da ballo perché l’allegria banale e il movimento volteggiante dei valzer irritano quanto un insulto, sentirsi di umore tetro e con la voglia di piangere o, al contrario, allegro senza motivo, a causa dell’arredamento, della tappezzeria e della scomposizione della luce e trovare, a volte, grazie alla combinazione di percezioni, delle soddisfazioni fisiche che non si produrrebbero in persone dal fisico più comune?
Lo ignoro. Ma se il sistema nervoso non è sensibile fino al dolore o fino all’estasi non comunica che emozioni mediocri e soddisfazioni volgari.
La bruma marina mi accarezzava piacevolmente. Si spandeva/allargava nel cielo ed io guardavo con delizia le stelle avvolte nell’ovatta, un po’ offuscate, nel firmamento scuro e biancastro. Dietro a quel vapore che ondeggiava sull’acqua e aureolava gli astri, la costa era sparita.
Si sarebbe detto che una mano soprannaturale avesse impacchettato il mondo dentro a leggere nuvole di cotone, per un viaggio sconosciuto.
D’un tratto, non si sa da dove, attraverso quel vapore scuro, giunse sul mare una musica lontana. Sembrava vi fosse un’orchestra sospesa nell’aria, che suonava per me. La melodia, debole ma distinta, aveva una sonorità affascinante e diffondeva nella notte mite un mormorio d’opera.
Udii una voce vicino a me.
- E’ vero! – diceva un marinaio – oggi è domenica e nei giardini pubblici di Sanremo c’è la banda.
Io prestavo orecchio, sorpreso, e mi sembrava di essere vittima di un bel sogno. Ascoltai a lungo, rapito, quel canto notturno che si librava attraverso lo spazio.
Poi, nel bel mezzo di un brano, la musica crebbe, si amplificò e sembrò venire verso di noi. Fu un effetto così fantastico e sorprendente che mi alzai in piedi ad ascoltare. Sicuro, veniva più forte e distinta di secondo in secondo. In che modo veniva verso di me? Su quale fantomatica zattera stava per apparire? Arrivava talmente rapida che, mio malgrado, scrutavo il buio con occhi commossi. Poi, di colpo, fui sommerso da un soffio caldo, carico del profumo delle piante selvatiche. Si spandeva come un fiotto, pieno della fragranza del mirto, della menta, della cedronella, del semprevivo, del lentisco, della lavanda e del timo, bruciati dal sole dell’estate.
Il vento di terra, carico degli effluvi della costa, portava al largo quell’armonia errabonda, mescolata all’odore delle piante alpestri.
Ero ansimante, inebriato fino al delirio, e non sapevo più se respiravo musica, se ascoltavo profumi o se dormivo fra le stelle.
La brezza florale ci spinse verso il mare aperto, prima di scomparire durante la notte. La musica si indebolì lentamente, poi tacque, mentre il battello si allontanava nella nebbia.
Non riuscivo a dormire e mi domandavo come un poeta modernista, della scuola detta simbolista, avrebbe reso la confusa vibrazione nervosa che mi aveva afferrato e che mi sembrava impossibile da tradurre in un linguaggio chiaro. Certo, qualcuno degli operosi raccontatori della multiforme sensibilità artistica se la caverebbero con onore, esprimendo in versi eufonici, pieni di sonorità intenzionali, incomprensibili e tuttavia percettibili, questa mescolanza inesprimibile di suoni profumati, di bruma stellata e di brezza marina che semina musica nella notte.
Mi tornò in mente un sonetto del loro grande capostipite, Baudelaire:
La nature est un temple où des vivants piliers
Laissent parfois sortir des confuses paroles.
L’homme y passe à travers des forets de symboles
Qui l’observent avec des regards familiers.
Comme de longs échos qui de loin se confondent
Dans une ténébreuse et profonde unité
Vaste comme la nuit et comme la clarté,
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants,
Doux comme les hautbois, verts comme les prairies,
-Et d’autres corrompus, riches et triomphants,
Ayant l’expansion des choses infinies
Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens,
Qui chantent le transport de l’esprit et des sens. *)
*) La natura è un tempio dai pilastri viventi/ Che lasciano scaturire delle parole confuse;/ L’uomo vi passa attraverso foreste di simboli/ che lo osservano con sguardi familiari./
Come lunghe eco che da lontano si confondono/ In una tenebrosa e profonda unità,/ Vasta come la notte e come il chiarore/ I profumi, i colori e i suoni si rispondono.
Vi sono profumi freschi come carne di bambino,/ Dolci, come gli oboi, verdi come le praterie, - E altri corrotti, ricchi e trionfanti,/ Aventi l’espansione delle cose infinite/ come l’ambra, il muschio, il benzoino e l’incenso,/ Che cantano il trasporto dello spirito e dei sensi.
Avevo sentito fino al midollo quel verso misterioso:
Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.
E non soltanto si rispondono in natura, ma si rispondono dentro di noi e qualche volta si confondono:
dans une ténébreuse et profonde unité,
come dice il poeta, attraverso le ripercussioni di un organo sull’altro.
D’altra parte, questo fenomeno è conosciuto in medicina. Anche quest’anno sono stati scritti molti articoli e lo si è chiamato Audizione colorata.
E’ stato provato che nelle persone nervose ed eccitabili, quando uno dei sensi riceve uno choc che lo turba molto, l’urto si trasmette come un’onda ai sensi vicini, che lo traducono a modo loro. In alcuni individui, per una sorta di contagio della sensibilità trasformata secondo la funzione normale di ogni apparecchio cerebrale colpito, la musica evoca visioni colorate.
In questo modo, si può spiegare il famoso sonetto di Arthur Rimbaud, che racconta le sfumature delle vocali, vera dichiarazione di fede, adottata dalla scuola simbolista:
A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu, voyelles,
Je dirai quelque jour vos naissances latentes,
A, noir corset velu des mouches éclatantes
Qui bourdonnent autour des puanteurs cruelles,
Golfes d’ombre; E, candeurs des vapeurs et des tentes,
Lances des glaciers fiers, rois blancs, frissons d’ombrelles;
I, pourpre, sang craché, rire des lèvres belles
Dans la colère ou les ivresses pénitentes;
U, cycles, vibrements divins des mers virides,
Paix des patis semés d’animaux, paix des rides
Que l’alchimie imprime aux grands fronts studieux;
O, supreme clairon, plein de strideurs étranges
Silences traversés des mondes et des anges
-O, l’Oméga, rayon violet de ses yeux. *)
*) A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu, vocali,/ Dirò un giorno le vostre origini latenti,/ A, nero corsetto peloso di mosche scintillanti; Che ronzano intorno ad odori crudeli;
Golfi d’ombra; E, candore di vapori e di tende,/ Lance di maestosi ghiacciai, re bianchi, fremiti di ombrelli;/ I porpora, sangue sputato, riso di belle labbra/ nella collera o nelle ubriachezze/ ebbrezze penitenti;/
U, cicli, vibrazioni divine dei mari virides;verdi?/ Pace di pasture disseminate di animali, pace delle rughe Che l’alchimia imprime sulle ampie fronti studiose;/
O, suprema tromba, piena di strani stridori,/ Silenzi attraversati dai mondi e dagli angeli/ -O, l’Omega, raggio violetto dei suoi occhi.
Ha ragione o ha torto? Per gli spaccapietre e anche per molti dei nostri grandi uomini, questo poeta è un pazzo o un venditore di fumo. Per altri, egli ha scoperto e rivelato una verità assoluta, anche se le opinioni di questi esploratori di percezioni inafferrabili differiscono sempre un po’ sulle sfumature e sulle immagini che le vibrazioni misteriose delle vocali o di un’orchestra evocano in noi.
Se la scienza attuale riconosce che le note musicali, agendo su certi organismi, suscitano in loro delle visioni colorate, se sol può essere rosso, fa lilla o verde, perché questi stessi suoni non dovrebbero provocare anche la sensazione dei sapori nella bocca e dei profumi nel naso? Perché un individuo sensibile e un po’ isterico non potrebbe assaporare le cose con tutti i sensi e perché i poeti simbolisti non potrebbero rivelare una deliziosa sensibilità a chi, come loro, è incurabile e privilegiato?
Più che di vera e propria estetica, si tratta di patologia artistica.
Non potrebbe essere che qualcuno di questi scrittori interessanti, affetti da neuropatia, siano arrivati a un tale livello di eccitabilità che le impressioni producono in loro una sorta di concerto di tutte le facoltà di percezione?
E non esprime questo la loro bizzarra poesia di suoni che, pur sembrando inintelligibili, cercano di cantare l’intera gamma delle sensazioni e di rappresentare, con la vicinanza delle parole più che con un accordo razionale e con il loro significato conosciuto, di sensazioni intraducibili, che per noi sono oscure ma che per loro sono chiare?
Gli artisti hanno ormai esaurito le loro risorse, sono a corto di inediti, di cose sconosciute, di emozioni, di immagini, di tutto. Sin dall’antichità abbiamo raccolto i fiori del loro campo. E, nella loro impotenza, sentono confusamente che potrebbe esserci per l’uomo un’espansione dell’anima e delle sensazioni. Ma l’intelligenza ha cinque barriere, quasi chiuse e incatenate, che chiamiamo i cinque sensi, cinque barriere che gli uomini appassionati d’art nouveau scuotono con tutte le loro forze.
L’intelligenza, questa laboriosa e cieca sconosciuta, è in grado di conoscere, capire e scoprire soltanto attraverso i sensi. Sono i suoi unici aiutanti e intermediari con la Natura Universale, che le forniscono i dati su cui lavora. Per raccogliere informazioni essi seguono le proprie qualità, la propria sensibilità, la propria forza e finezza.
Il valore del pensiero dipende quindi direttamente dal valore degli organi di senso e la sua ampiezza è limitata dal loro numero
Hippolyte Taine ha trattato e sviluppato questo punto in modo magistrale.
I sensi sono solo cinque, e la loro interpretazione ci rivela alcune proprietà della materia circostante, che custodisce un numero illimitato di altri fenomeni, che siamo incapaci di percepire.
Supponiamo che l’uomo fosse stato creato senza orecchie. Vivrebbe più o meno allo stesso modo, ma non avrebbe alcun sospetto del rumore e della musica, che sono vibrazioni trasformate. Per lui l’Universo sarebbe muto.
Ma se fosse stato dotato di altri organi potenti e delicati, in grado di trasformare in percezioni nervose le azioni e le qualità dell’ignoto che ci circonda, quanto più ricco sarebbe il campo del nostro sapere e delle nostre emozioni!
Ogni artista cerca di entrare in questo campo impenetrabile, tormentando, violentando, sfruttando il proprio meccanismo di pensiero. Quelli che non hanno resistito, Heine, Baudelaire, Balzac, Byron, vagabondo alla ricerca della morte e inconsolabile per la sfortuna di essere un grande poeta, Musset, Jules de Goncourt e tanti altri, non sono forse stati stritolati dallo sforzo di abbattere la barriera materiale che imprigiona l’intelligenza umana?
I nostri organi sono gli alimentatori e i maestri dell’artista geniale. L’orecchio genera il musicista, l’occhio fa nascere il pittore e tutti insieme concorrono alle sensazioni del poeta. Nel romanziere domina la visione generale e domina talmente che diventa facile riconoscere, nella lettura di un’opera elaborata e sincera, le qualità e le proprietà fisiche dello sguardo dell’autore. L’ingrandimento del dettaglio, la sua importanza o la sua minuziosità, il suo sconfinamento dallo schema e la sua natura speciale indicano con certezza tutti i gradi e le differenze delle miopie. La coordinazione dell’insieme, la proporzione delle linee e delle prospettive preferite all’osservazione minuta, la dimenticanza dei dettagli, che spesso sono la caratteristica di una persona o di un luogo, non denunciano immediatamente lo sguardo lungo ma debole di un presbite?