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Verso Kairouan   

11 dicembre
Lasciamo Tunisi per una bella strada che costeggia una collinetta, segue per un momento la riva di un lago, poi attraversa una pianura. L’orizzonte ampio, chiuso da montagne dalle creste brumose, è tutto nudo, macchiato qua e là da villaggi bianchi, nei quali si scorgono da lontano, i minareti aguzzi e le piccole cupole delle kubba che sovrastano la massa indistinta delle case. In questa terra fanatica, ritroviamo dappertutto queste piccole cupole splendenti delle  kubba: nelle fertili pianure d’Algeria e Tunisia, sul dorso arrotondato delle montagne dove stanno come fari, in fondo alle foreste di pini e di cedri, sul bordo dei burroni profondi, nel folto di lentischi e di sughere, nel deserto giallo fra due palme da datteri, chine su di essa a lasciar cadere sulla sua cupola lattea l’ombra fine e leggera delle foglie.
Contengono le ossa dei marabut, seme sacro che feconda la terra infinita dell’Islam e che da Tangeri a Tombouctou, dal Cairo alla Mecca, da Tunisi a Costantinopoli, da Khartoum a Giava fa germinare la religione più potente, più misteriosamente dominatrice, che abbia mai soggiogato la coscienza umana.
Piccole, rotonde, isolate e così bianche da dar l’impressione di emanare chiarore, hanno l’aria di granelli divini seminati nel mondo a piene mani da quel grande seminatore di fede che è Maometto, fratello di Aissa e di Mosè.

Per lungo tempo andiamo al gran trotto dei quattro cavalli, per pianure senza fine piantate a vigneto o seminate a cereali, che cominciano a germogliare.
All’improvviso la strada, la bella strada, la cui carreggiata e i ponti furono costruiti ai tempi del protettorato francese, si arresta di colpo. Un ponte ha ceduto a causa delle ultime piogge, un ponte troppo piccolo, che non ha permesso il passaggio dell’enorme massa d’acqua scesa dalla montagna. Con grande fatica scendiamo nel burrone,  poi la diligenza risale dall’altra parte e  riprende la strada, che è una delle arterie principali della Tunisia, secondo il linguaggio ufficiale. I cavalli continuano a trottare per qualche chilometro, fino a quando troviamo un altro piccolo ponte che ha ceduto alla pressione dell’acqua. Un po’ più oltre, il ponte è rimasto in piedi, solo e indistruttibile, come un piccolo arco di trionfo, mentre è sparita la strada, portata via dalle due parti, dove ha lasciato due abissi attorno a questa rovina nuovissima.

Verso mezzogiorno, ai lati della strada quasi sparita scorgiamo una singolare costruzione. E’ un vasto isolato di abitazioni saldate insieme, appena più alte della statura di un uomo, riparate da una serie di volte alcune delle quali, un po’ più alte, sovrastano le altre e danno a questo singolare villaggio l’aspetto di un agglomerato di tombe. Là sopra corrono dei cani bianchi che ci abbaiano minacciosi.
Questo gruppo di case si chiama Gorombalia e venne fondato da un capo andaluso maomettano, Mohammed Gorombali, cacciato dalla Spagna da Isabella la Cattolica.   
Ci fermiamo in questo luogo a pranzare, poi ripartiamo. In lontananza, con il binocolo, scorgiamo ovunque delle rovine romane. Dapprima quelle di Vico Aureliano, poi quelle più importanti di Siago, dove rimangono anche delle costruzioni bizantine e arabe.
Ma ecco che la bella strada, la principale arteria della Tunisia, non è più che un orrendo solco, bucato, scavato e divorato dalle piogge. I ponti crollati non mostrano altro che una massa di pietre nei burroni. Altri sono ancora intatti, ma l’acqua, con sommo disprezzo, si è aperta altrove un varco largo almeno 50 metri, in mezzo ai detriti.

Perché questi danni, queste rovine? Anche un bambino lo saprebbe, al primo colpo d’occhio. Quando arrivano le piogge, i ponticelli, troppo stretti, si trovano sotto al livello dell’acqua. Ricoperti dal torrente e ostruiti dai rami che esso trasporta, sono travolti, mentre la corrente capricciosa, rifiutando di incanalarsi sotto ai successivi, riprende il suo corso normale, aperto negli anni precedenti a dispetto degli ingegneri. La strada da Tunisi a Kairouan è stupefacente a vedersi. Anziché facilitare il passaggio delle persone e delle vetture, lo rende impossibile, creando pericoli senza fine. La vecchia pista araba, che era buona, è stata distrutta e rimpiazzata con una serie di pantani, di arcate demolite, di solchi profondi e di buche. Tutto è da rifare prima ancora che sia terminato. Ad ogni pioggia i lavori ricominciano. Non si vuole ammettere né si consente a comprendere che bisognerà sempre ricominciare questa filza di ponti cadenti. Quello di Enfidaville è stato ricostruito due volte ed è stato appena portato via. Quello di Oued-el-Hammam è stato distrutto per la quarta volta. Sono dei ponti nuotatori, tuffatori, ribaltatori, non delle vie di comunicazione. Soltanto i vecchi ponti arabi rimangono tali e resistono a tutto.         

Cominciamo ad arrabbiarci perché la vettura deve scendere dentro a gole quasi insuperabili e dieci volte all’ora ci sembra di andare sottosopra. Poi finiamo per riderne, come di una cosa incredibilmente comica. Per evitare questi ponti pericolosi bisogna fare immense deviazioni, andare a nord, tornare a sud, girare ad est, ripassare ad ovest. I poveri indigeni hanno dovuto aprirsi una nuova strada a colpi di piccone, di scure e di roncola, attraverso la macchia di lecci, di tuie, di lentischi, di erica e di pini d’Aleppo, dopo che noi abbiamo distrutto il loro antico passaggio.
Ben presto gli arbusti spariscono e vediamo soltanto una distesa ondulata, screpolata dai borri dove affiorano, qua e là, le ossa bianche di una carcassa dalle costole sollevate o la carogna divorata a metà dagli uccelli da preda e dai cani. Per quindici mesi non è caduta neanche una goccia d’acqua e la metà degli animali sono morti di fame. I loro cadaveri sono disseminati dappertutto, avvelenano l’aria e danno a questa pianura l’aspetto di un paese sterile, divorato dal sole e devastato dalla peste.

Solo i cani sono grassi, nutriti da questa carne in putrefazione. Spesso se ne scorgono due o tre, accaniti sulla stessa putredine. Puntando gli artigli, essi tirano la lunga gamba di un cammello o la corta zampa di un asinello, fanno a pezzi il petto di un cavallo o rovistano il ventre di una mucca. In lontananza se ne scoprono altri, con il pelo folto, che errano, in cerca di carogne, fiutando l’aria e tendendo il muso aguzzo.
E’ bizzarro pensare che questa terra, che per due anni è stata bruciata da un sole implacabile e che nell’ultimo mese è stata sommersa da piogge diluviali,  verso marzo e aprile sarà una prateria sconfinata, con erbe alte fino alla spalla e innumerevoli fiori come non se ne vedono nei nostri giardini. Ogni anno, quando piove, la Tunisia passa in pochi mesi dall’aridità più spaventosa alla fertilità più furiosa. In pochi giorni, come per miracolo, essa si trasforma di colpo da un Sahara senza un filo d’erba in una Normandia follemente verde, inebriata di caldo, che getta nelle messi tali ondate di linfa da farle germogliare, crescere, ingiallire e maturare a vista d’occhio.        

Il territorio è coltivato qua e là, in modo molto singolare, dagli Arabi abitanti nei villaggi chiari che si vedono in lontananza, nei gurbì, le capanne di rami, nelle tende brune nascoste come grossi funghi dietro ai cespugli secchi o nei boschi di cactus. Quando l’ultimo raccolto è stato abbondante, essi si accingono per tempo ad arare, ma quando la siccità li ha ridotti alla fame, aspettano di solito le prime piogge per rischiare i loro ultimi semi o per farsi dare dal governo le sementi, ottenute in prestito abbastanza facilmente.     
Dopo che i pesanti acquazzoni autunnali hanno inzuppato il paese, essi vanno a trovare il caid, che possiede il territorio fertile, o il nuovo proprietario europeo che spesso affitta a un prezzo più alto ma non li deruba e che, nelle loro contestazioni, rende loro una giustizia più rigorosa, non venale. Loro indicano le terre che hanno scelto, ne segnano i limiti, le prendono in affitto per una stagione, poi si mettono a coltivarle.

Allora si assiste ad uno spettacolo sorprendente! Ogni volta che si lasciano le regioni aride e pietrose e si arriva nelle zone fertili, appaiono in lontananza gli inverosimili profili dei cammelli attaccati all’aratro. Questi animali alti, fantastici, trascinano con il loro passo lento, il magro strumento di legno spinto dagli Arabi vestiti di una specie di camicia. Quando ci avviciniamo a un’area ambita, questi gruppi sorprendenti che vanno, vengono, si incrociano in tutta la pianura, si moltiplicano. L’animale, l’attrezzo e l’uomo sembrano saldati insieme, a formare il profilo indefinibile di un essere apocalittico e solennemente buffo.
Ogni tanto il cammello è sostituito dalle mucche, dagli asini, a volte persino dalle donne. Ne ho vista una aggiogata insieme a un asino, che tirava quanto l’animale, mentre il marito spingeva e incitava questo attacco penoso.     

Il solco tracciato dall’Arabo non assomiglia al bel solco diritto e profondo inciso dall’aratro europeo. E’ una sorta di festone che va in giro a fior di terra, in modo bizzarro, attorno ai ciuffi di giuggiolo. Il coltivatore noncurante non si ferma né si abbassa per strappare una pianta parassita davanti a lui. La evita con una deviazione, la rispetta, la racchiude nei tortuosi circuiti della sua aratura, come se fosse un esemplare unico e sacro.
Per questo i campi sono pieni di arboscelli, alcuni dei quali sono così piccoli che si potrebbero estirpare con un piccolo sforzo della mano. La vista di queste coltivazioni miste di cespugli e di cereali finisce per innervosire l’occhio a tal punto che viene voglia di prendere una zappa e dissodare la terra dove circolano, attraverso i giuggioli selvatici, queste fantastiche triadi di cammelli, aratri e Arabi.     

In questa indifferenza tranquilla, in questo rispetto per la pianta cresciuta sulla terra di Dio, c’è l’anima fatalista dell’Orientale. Se l’arbusto è cresciuto là, senza dubbio è perché il Maestro ha voluto così. Perché disfare la sua opera e distruggerla? Non è meglio girarle attorno ed evitarla? E se essa cresce fino a invadere tutto il campo, non ci sono forse altre terre più lontano? Perché fare un gesto, uno sforzo di più, prendersi la pena di aggiungere una fatica, per quanto leggera, al lavoro indispensabile?
Da noi il contadino è rabbiosamente geloso della sua terra più che della moglie e si getterebbe sul nemico cresciuto sulla sua proprietà con la zappa in mano e colpirebbe senza tregua la radice resistente con ampi gesti da boscaiolo, fino a quando non l’avesse vinta.

Qui, che importa? Non si rimuove la pietra che si incontra, ci si limita ad aggirarla. Basterebbe un uomo da solo a liberare in un’ora certi campi dalle pietre, che costringono il vomere dell’aratro a compiere infinite oscillazioni. Ma nessuno lo farà mai. Le pietre sono là, che ci restino. Non è forse questa la volontà di Dio?
Dopo aver seminato il territorio che hanno scelto, i nomadi partono alla ricerca di pascoli per le loro greggi, lasciando una famiglia a guardia del raccolto.          
In questo momento ci troviamo in un’immensa tenuta di 140.000 ettari, detta l’Enfida, che appartiene a dei Francesi. L’acquisto di questa proprietà smisurata, che apparteneva al generale Kheir-ed-Din, ex ministro del bey, è stata una delle cause determinanti dell’influenza francese in Tunisia.
Le circostanze che hanno accompagnato l’acquisto sono particolari e divertenti. Quando i capitalisti francesi e il generale si furono messi d’accordo sul prezzo, andarono dal cadì per redigere il contratto. Ma la legge tunisina contiene una disposizione speciale che dà diritto di prelazione ai proprietari confinanti, a parità di prezzo.  

Da noi, per prezzo uguale si intende una somma uguale pagata in moneta corrente, non importa di quale taglio. Ma il codice orientale lascia sempre la porta aperta ai cavilli. In questo caso, essa prevede che la somma pagata dal vicino interessato alla compera sia in monete tutte uguali: titoli dello stesso taglio, biglietti di banca dello stesso valore, monete d’oro, d’argento o di rame. In certi casi, per rendere insolubile il problema, permette al cadi di autorizzare il primo acquirente ad aggiungere alla somma pattuita una manciata di monetine per un valore sconosciuto, cosa che mette il proprietario confinante nell’impossibilità di versare  una somma identica.
Davanti all’opposizione del signor Levi, un Israelita vicino di proprietà, i Francesi chiesero l’autorizzazione al cadì di aggiungere al prezzo concordato la manciata di monetine. L’autorizzazione fu rifiutata.

Ma il codice musulmano è pieno di risorse e si presentò subito un altro appiglio. Si trattava di acquistare l’intero blocco di terre, 140.000 ettari, meno una striscia larga un metro lungo la linea di confine. In questo modo, non vi sarebbero più stati punti di contatto con i vicini. Fu così che la Società franco-africana divenne proprietaria dell’Enfida, malgrado gli sforzi dei suoi nemici e del ministero beilicale per opporsi.
Essa ha fatto fare grandi lavori nelle parti fertili: ha impiantato vigneti e alberi, ha costruito villaggi e diviso le terre in appezzamenti di 10 ettari ciascuno, in modo che gli Arabi possano scegliere con facilità le porzioni da coltivare.

Stiamo per attraversare questa immensa provincia tunisina, per raggiungere l’altra estremità della quale occorreranno due giorni. La strada, una semplice pista che passa attraverso ciuffi di giuggioli, è in discrete condizioni, per cui nutrivamo la speranza di arrivare prima del buio a Bou-Ficha, per passarvi la notte. Purtroppo, una squadra di operai di tutte le razze erano occupati a sostituire la pista, passabile, con una strada francese, vale a dire con una filza  di pericoli e ci costrinsero a rallentare la marcia. Sono sorprendenti, gli operai di questo paese! Senza che si sappia il perché né il come, il negro dai grandi occhi bianchi, le labbra tumide e i denti splendenti, si ritrova a zappare accanto all’Arabo dal profilo minuto, allo Spagnolo peloso, al Marocchino, al Moro, al Maltese, allo sterratore francese sperdutosi qui. Ci sono anche dei Greci, dei Turchi e tutti i tipi di Levantini. Si può immaginare quali siano la morale, la probità e la amabilità medie di quest’orda.

Verso le tre, raggiungiamo il più vasto caravanserraglio che io abbia mai visto. E’ una vera città o, meglio, un villaggio racchiuso in un recinto, con tre cortili immensi uno di fianco all’altro. Vi sono panettieri, ciabattini e altri venditori acquartierati dentro a cubicoli mentre, sotto il porticato, sono accampati gli animali. Ai passanti di rango sono riservate alcune celle pulite, con letti e stuoie.
Sul muro della terrazza, due piccioni argentei e lucenti ci guardano con occhi rossi che brillano come rubini.
I cavalli hanno bevuto. Possiamo ripartire.     

La strada si avvicina un poco al mare e scorgiamo all’orizzonte la sua striscia blu. All’estremità di un capo si scorge una città, la cui linea diritta e abbagliante sotto il sole al tramonto sembra correre sull’acqua. E’ Hammamet, che i Romani chiamavano Put-Put. Lontano, nella pianura davanti a noi, sorge un rudere di forma rotonda, che sembra gigantesco per effetto di un miraggio. E’ una tomba romana alta circa 10 metri, chiamata Kars-el-Menara.

Viene la sera. Sopra le nostre teste il cielo è rimasto blu, ma davanti a noi si stende una nuvola viola, opaca, dietro alla quale è sprofondato il sole. Al di sotto di questo strato di nubi si allunga sul mare un sottile nastro rosa, diritto e regolare, che diventa più luminoso di minuto in minuto, man mano che l’astro invisibile scende vero di esso. Passano alcuni grossi uccelli con un volo lento, credo che siano delle poiane. In questa landa selvaggia che prosegue così fino a Kairouan, a due giorni di marcia davanti a noi, la sensazione profonda della sera penetra l’anima, il cuore e il corpo con rara intensità. Così dev’essere, all’ora del crepuscolo, la steppa russa. Incontriamo tre uomini in burnus. Da lontano, li scambio per dei negri, tanto sono neri e lucenti, poi riconosco il tipo arabo. Vengono dal Souf, oasi curiosa quasi nascosta nelle sabbie fra i Chotts e Touggourt.

Ben presto scende la notte e i cavalli si mettono al passo. Ma ecco un muro bianco spuntare inatteso nell’ombra. E’ l’intendenza nord dell’Enfida, il bordj di Bou-Ficha, una specie di fortezza quadrata, con muri senza aperture e una porta di ferro, per proteggerla dalle sorprese degli Arabi. Ci stanno aspettando. La moglie dell’intendente, la signora Moreau, ci ha preparato una cena molto buona. Nonostante i ponti e il fondo stradale, abbiamo fatto 80 chilometri.
 
12 dicembre
Partiamo quando fa giorno. L’aurora è rosa, d’un rosa intenso, che definirei  salmonato, se questa nota fosse più brillante. Manchiamo veramente di parole per tradurre tutte le combinazioni di toni che ci passano davanti agli occhi. Il nostro sguardo moderno sa vedere la gamma infinita delle sfumature e distinguere tutte le gradazioni che esse subiscono, tutte le modificazioni sotto l’influenza dell’ambiente, della luce e delle ombre, secondo le ore del giorno. E per esprimere queste migliaia di sottili colorazioni noi abbiamo solamente poche parole, le parole semplici che usavano i nostri padri per raccontare le rare emozioni dei loro occhi ingenui.
Guardiamo le nuove stoffe. Quanti toni inesprimibili vi sono fra quelli principali! Per evocarli, non ci si può servire che di paragoni, che sono sempre insufficienti.
Non saprei far vedere con dei verbi, dei nomi e degli aggettivi quello che ho visto in pochi minuti quel mattino.

Ci avviciniamo di nuovo al mare o, meglio, ad un vasto stagno che si apre sul mare. Con il mio binocolo, scorgo dei fenicotteri nell’acqua. Lascio la vettura per strisciare verso di loro in mezzo ai cespugli e guardarli più da vicino.
Avanzo. Li vedo meglio. Alcuni nuotano, altri sono in piedi sui loro lunghi trampoli. Sono delle macchie bianche e rosse che galleggiano o, meglio, dei fiori enormi cresciuti su di un minuscolo stelo color porpora, dei fiori raggruppati a centinaia sull’argine e dentro l’acqua. Li si direbbe delle aiuole di gigli rosso carminio da cui escono, come da una corolla, delle teste d’uccelli macchiate di sangue all’estremità del collo sottile e curvo.
Mi avvicino ancora ma, all’improvviso, lo stormo più vicino mi vede o mi fiuta e fugge. Dapprima si alza uno solo di essi, poi partono tutti. E’ veramente il volo prodigioso di un giardino, le cui aiuole si sollevano una dopo l’altra verso il cielo. Seguo a lungo con il mio binocolo quelle nuvole rosa e bianche che se ne vanno verso il mare, trascinandosi dietro le zampe sanguinanti, fini come rami tagliati.

Questo grande stagno serviva un tempo da rifugio alla flotta degli abitanti di Aphrodisium, i terribili pirati che si imboscavano e si rifugiavano là.
In lontananza si scorgono le rovine di questa città, dove Belisario fece sosta nel corso della sua marcia su Cartagine. Vi si trovano ancora un arco di trionfo, i resti di un tempio di Venere e di una immensa fortezza.
Sul territorio dell’Enfida si incontrano le vestigia di diciassette città romane. Laggiù sulla riva c’è Hergla che fu l’opulenta Aurea Coelia di Antonino e se, anziché piegare verso Kairouan, noi continuassimo in linea retta, la sera del terzo giorno di marcia vedremmo ergersi, in una pianura assolutamente incolta, l’anfiteatro di Ed-Djem, grande quanto il Colosseo di Roma, una rovina colossale che poteva contenere 80.000 spettatori.

Attorno a questo gigante, che sarebbe quasi intatto se Hamouda, bey di Tunisi, non l’avesse preso a cannonate per aprire dei varchi che consentissero di far sloggiare gli Arabi asserragliati che rifiutavano di pagare le imposte, abbiamo trovato qua e là tracce di una città lussuosa, di grandi cisterne e di un immenso capitello corinzio dell’arte più pura, un unico blocco di marmo bianco.  
Qual è la storia di questa città, la Tusdrita di Plinio, la Thysdrus di Tolomeo, il cui nome troviamo trascritto dagli storici soltanto una o due volte? Che cosa le manca per essere celebre, dato che è stata così grande, popolosa e ricca? Quasi nulla… un Omero!
Senza di lui, che cosa sarebbe stata Troia? Chi conoscerebbe Itaca?

In questo paese, si impara cos’è la storia e cosa è stata la Bibbia guardandosi intorno. Si capisce che i patriarchi e i personaggi leggendari, che sono così grandi nei libri e così imponenti nella nostra immaginazione, furono dei poveruomini che erravano fra le popolazioni primitive, come errano questi Arabi austeri e semplici, impregnati dell’anima antica e vestiti con un costume antico. I patriarchi, però, hanno avuto dei poeti epici per cantare la loro vita.
Almeno una volta al giorno, ai piedi di un ulivo o accanto a un bosco di cactus incontriamo la Fuga in Egitto. Si sorride al pensiero di quei pittori galanti che hanno fatto sedere Maria sull’asino, nella realtà senza dubbio montato da Giuseppe, suo sposo, mentre ella seguiva a passi pesanti, un po’ curva, portando sulla schiena il piccolo corpo, rotondo come una palla, del bambino Gesù, dentro a un burnus grigio di polvere.

Ad ogni pozzo vediamo Rebecca, vestita con un abito di lana blu, superbamente drappeggiato,  con anelli d’argento alle caviglie e un collier di piastre dello stesso metallo, unite da catene, sul petto. Qualche volta, quando ci avviciniamo, ella nasconde il volto. Ma quando è bella, ci mostra un viso bruno e fresco e ci guarda con grandi occhi neri. E’ proprio la ragazza della Bibbia, quella che nel Cantico dice: Nigra sum sed formosa, che porta un otre sulla fronte lungo la strada pietrosa, che cammina con passo tranquillo e che, mostrando la carne soda e abbronzata delle sue gambe e dondolando dolcemente sulle anche la figura morbida, tentò gli angeli del cielo, come oggi tenta noi, che angeli non siamo.

In Algeria e nel Sahara algerino tutte le donne sono vestite di bianco, quelle di città come quelle delle tribù. In Tunisia, invece, le donne di città sono avvolte dalla testa ai piedi in veli di mussola nera, che ne fanno delle apparizioni strane nelle strade chiare delle piccole città del sud, mentre le donne di campagna sono vestite con degli ampi abiti blu dall’effetto grazioso, che donano loro un’andatura ancora più biblica.    
Ci avviciniamo al centro dell’Enfida, che prima si chiamava Dar-el-Bey e che ora è stata ribattezzata Enfidaville. La pianura che attraversiamo presenta dappertutto tracce del lavoro umano.
Ecco laggiù degli alberi. Che meraviglia! Sono molto alti, anche se sono stati piantati solo quattro anni fa e testimoniano la sorprendente ricchezza di questa terra e dei risultati che potrebbe dare una coltivazione ragionata e  seria. In mezzo agli alberi si scorgono dei grandi edifici, sui quali sventola la bandiera francese. E’ l’abitazione dell’amministratore generale, il centro vitale della città futura. Attorno a queste importanti costruzioni si è formato un villaggio, nel quale tutti i lunedì si tiene un mercato, dove si fanno grossi affari. Gli Arabi vi arrivano a frotte anche da molto lontano.

E’ interessante studiare l’organizzazione di questa immensa proprietà, nella quale gli interessi degli indigeni sono salvaguardati con altrettanta cura di quelli degli Europei.
E’ un modello di gestione dell’agricoltura per questi paesi misti dove i costumi, essenzialmente opposti e diversi, richiedono delle istituzioni delicatamente previdenti.
Dopo aver pranzato in questa capitale dell’Enfida, partiamo per visitare un villaggio molto curioso, appollaiato su di una roccia lontana cinque chilometri circa.
Dapprima traversiamo dei vigneti, poi entriamo nella vasta landa di terra gialla, cosparsa di magri ciuffi di giuggioli.
Quasi tutte queste pianure potrebbero diventare, con un po’ di lavoro, degli immensi uliveti perché la falda d’acqua sotterranea è a soli due, tre o cinque metri di profondità. .
Qua e là si vedono dei piccoli boschi di cactus, grandi come i nostri frutteti.
Ecco l’origine di questi boschi.

In Tunisia esiste una pratica molto interessante chiamata diritto di vivificazione del suolo che permette a ogni Arabo di impadronirsi delle terre incolte e di renderle fertili se il proprietario non è presente per opporsi.
L’Arabo, scorgendo un campo che gli sembra fertile, vi pianta degli ulivi, ma soprattutto dei cactus, che lui chiama impropriamente fichi di Barberia. Per questo solo fatto, egli si assicura il godimento della metà del raccolto, fino alla morte delle piante. L’altra metà dei frutti appartiene al proprietario del terreno, che da quel momento non deve far altro che sorvegliare la vendita dei prodotti per incassare la parte che gli spetta di diritto.
L’Arabo invasore deve prendersi cura del campo, provvedere alla sua manutenzione, difenderlo dai furti e salvaguardarlo da ogni male, come se  appartenesse a lui. Ogni anno egli mette i frutti all’asta, poi fa una divisione equa dell’incasso, anche se, quasi sempre, si trasforma lui stesso in acquirente e paga al proprietario una sorta di affitto non contemplato,  proporzionato al valore del raccolto.

Questi boschi di cactus hanno un aspetto fantastico. I tronchi contorti somigliano a corpi di dragoni, a membra di mostri con le scaglie sollevate e irte di punte. Se vi si entra la sera, al chiaro di luna, si ha proprio l’impressione di trovarsi in un paese da incubo.      
La base della roccia scoscesa dove sorge il villaggio di Tac-Rouna è tutta ricoperta da queste piante diaboliche, che ci danno l’impressione di trovarci in una foresta dantesca. Esse sembrano scuotersi, agitare le loro larghe foglie rotonde, spesse e coperte da lunghi aghi, afferrarci, soffocarci, ridurci a brandelli con i loro terribili artigli. Non conosco nulla di più allucinante di questo intrico di cactus e di pietre enormi, che hanno invaso il fondo di questa montagna.
All’improvviso, in mezzo a queste rocce e a questi vegetali dall’aspetto feroce, scopriamo un pozzo circondato da donne che vengono a cercare l’acqua. I gioielli d’argento sulle loro gambe e sul loro collo brillano al sole. Scorgendoci, esse nascondono i loro visi bruni sotto a una piega della stoffa azzurra che le avvolge e, tenendo un braccio sulla fronte, cercano di guardarci mentre passiamo.

Il sentiero fra le rocce è ripido, adatto a malapena ai muli ed è stato invaso anche dai cactus, che sembrano accompagnarci, circondarci, imprigionarci, seguirci e precederci. Lassù, in cima alla montagna, si vede la cupola luminosa di una kubba.
Ecco il villaggio. E’ un ammasso di rovine e di muri cadenti, dove non si riescono a distinguere i tuguri abitati da quelli abbandonati. I lembi di muro ancora in piedi a nord e ad ovest sono talmente rovinati e pericolosi che non osiamo avventurarci in mezzo, perché una scossa potrebbe farli crollare.
La vista dall’alto è magnifica. A sud, a est e a ovest si protende la pianura infinita, bagnata per un lungo tratto dal mare. A nord si scorgono delle montagne brulle, rosse e dentellate come la cresta dei galli. In lontananza, lo Djebel-Zaghouan domina l’intera contrada.
Sono le ultime montagne che vediamo prima di arrivare a Kairouan.

Questo piccolo villaggio di Tac- Rouna è una specie di piazzaforte araba, completamente al riparo da colpi di mano. D’altra parte, Tac è un diminutivo di Tackesch, che vuol dire fortezza. Una delle funzioni principali degli abitanti, dato che non la si può chiamare occupazione, è quella di conservare nei silos il grano che i nomadi hanno affidato loro dopo la mietitura.
La sera, torniamo a dormire a Enfidaville.      

13 dicembre
Passiamo dapprima in mezzo ai vigneti della Società franco- africana, poi raggiungiamo le smisurate pianure, dove si muovono lungo tutto l’orizzonte quelle indimenticabili apparizioni fatte di un cammello, di un aratro e di un Arabo. In seguito la terra diviene arida. Con il binocolo scorgo davanti a noi  un grande deserto con pietre enormi, diritte, a perdita d’occhio in tutte le direzioni.
Avvicinandoci, riconosciamo dei dolmen. E’ una necropoli di proporzioni inimmaginabili, di almeno quaranta ettari! Ogni tomba è composta da quattro pietre piatte: tre, disposte verticalmente, formano il fondo e i lati, la quarta, posata sopra, serve da tetto. Per lungo tempo, l’intendente dell’Enfida ha fatto eseguire scavi per scoprire se sotto a questi monumenti megalitici vi fossero delle tombe, ma inutilmente.

Due anni fa circa, il signor Hamy, conservatore del museo d’etnografia di Parigi, dopo molte ricerche è giunto a scoprire l’ingresso di queste tombe sotterranee, nascosto con molta abilità sotto uno strato di larghe rocce. Egli vi ha trovato alcune ossa e dei vasi di terracotta rivelanti delle sepolture berbere. Su un altro lato, non lontano di là, il signor Mangiavacchi, amministratore dell’Enfida, ha individuato le tracce quasi scomparse d’una vasta città berbera. Quale poteva essere questa città che ha coperto con i suoi morti una distesa di quaranta ettari?

D’altra parte, si è costantemente colpiti dallo spazio che gli Orientali consacrano agli antenati. Si trovano tombe ovunque e, nella città del Cairo, esse tengono più posto delle case. Da noi invece la terra costa cara e gli scomparsi non contano più nulla, per cui li si accatasta, li si ammassa l’uno contro l’altro, l’uno sull’altro, l’uno dentro l’altro, in un piccolo angolo fuori città, in periferia, fra quattro muri. Le lastre di marmo e le croci di legno coprono diverse generazioni inumate là nel corso dei secoli. E’ un letamaio di morti alle porte della città, nel quale si dà loro appena il tempo di perdere la forma nella terra già concimata dalla putredine umana e di mescolare la loro carne decomposta all’argilla cadaverica. Poi, siccome ne arrivano senza sosta degli altri e nei campi vicini si coltivano gli ortaggi per i vivi, si scava a colpi di zappa questa terra che divora i corpi, si tolgono le ossa trovate, le teste, le braccia, le gambe, le costole di uomini, donne e bambini dimenticati e confusi insieme, li si getta alla rinfusa in una fossa e si dà ai morti recenti, quelli di cui non si sa ancora il nome, il posto sottratto agli altri che nessuno conosce più, che il nulla ha ripreso tutti interi, perché nelle società civilizzate bisogna essere economi.

Uscendo dall’antico e immenso cimitero scorgiamo una casa bianca. E’ El-Menzel, l’intendenza sud dell’Enfida, dove finisce la nostra tappa.
Dopo cena, essendo rimasti a lungo a chiacchierare, ci venne l’idea di uscire per qualche minuto prima di andare a letto.     
Un magnifico chiaro di luna illuminava la steppa e, scivolando fra le scaglie degli enormi cactus posti a qualche metro davanti a noi, dava loro l’aspetto soprannaturale di un gregge di bestie infernali che stessero per scoppiare,  gettando in aria, in tutte le direzioni, le placche rotonde dei loro corpi mostruosi.
Mentre eravamo fermi a guardarli, ci colpì un rumore lontano, continuo, forte. Era un coro di voci acute, gravi, di tutti i timbri immaginabili. Erano fischi, gridi e richiami, il rumore terribile ed oscuro di una folla irreale e senza nome, che aveva perso la ragione e che si stava battendo da qualche parte in cielo o in terra, non sapevamo dove.

Tendendo l’orecchio verso tutti i punti dell’orizzonte, finimmo per scoprire che lo schiamazzo veniva da sud. Allora qualcuno gridò:
“Ma sono gli uccelli del lago Tritone!”
Dovevamo passare vicino a questo lago il giorno seguente. Gli Arabi lo chiamano El-Kelbia, la cagna. Ha una superficie fra i 10.000 e i  13.000 ettari e, secondo alcuni geografi moderni, è l’antico mare interno dell’Africa, che fino ad ora era stato situato nei chott Fedjedj, R’arsa e Melr’ir.
Il popolo urlante degli uccelli d’acqua era accampato, come un’armata composta di diverse tribù, sui bordi di questo lago lontano sedici chilometri. Ce n’erano a migliaia,  di ogni razza, forma e piumaggio, dall’anatra dal becco piatto alla cicogna dal becco lungo, per questo facevano quel grande baccano. Vi erano armate di fenicotteri e di gru, flotte di melanitte e di gabbiani –goélands, reggimenti di svassi/ tuffetti, pivieri, beccaccini e gabbiani- mouettes.

E sotto al dolce chiaro di luna tutte quelle bestie, allietate dalla bella notte e lontane dall’uomo, per il quale non c’è posto nel grande regno acquatico, si agitavano, emettevano grida e chiacchieravano, senza dubbio, nella loro lingua d’uccelli, riempiendo il cielo luminoso con le loro voci stridule, alle quali rispondeva soltanto l’abbaiare dei cani arabi o l’uggiolio degli sciacalli.
 
14 dicembre
Dopo aver attraversato qualche pianura coltivata qua e là dagli indigeni, che potrebbe essere resa più fertile anziché essere lasciata incolta per la maggior parte del tempo, scopriamo a sinistra il lungo specchio d’acqua del lago Tritone. Ci avviciniamo a poco a poco e ci sembra di vedere delle isole, molte isole grandi, bianche e nere. Sono le popolazioni di uccelli che nuotano e galleggiano in masse compatte. Sui bordi, delle gru enormi passeggiano a due a due, a tre a tre, sulle loro alte zampe. Nella pianura, fra i ciuffi di macchia sovrastati dalle loro teste in movimento, se ne vedono altre.

Questo lago, la cui profondità raggiunge i sei- otto metri, quest’estate, dopo quindici mesi di siccità, era completamente asciutto, una cosa mai vista a memoria d’uomo. Ma malgrado la sua considerevole estensione, in autunno si è riempito in un solo giorno, grazie alle piogge cadute sulle montagne centrali, che esso raccoglie. Queste campagne, anziché essere attraversate da fiumi dal corso preciso che incanalano l’acqua della pioggia, come avviene in Algeria, sono percorse da torrenti la cui corrente è fermata dal minimo ostacolo. In questo sta la loro fortuna perché ogni acquazzone caduto sui monti lontani si spande sull’intera pianura, inondandola per parecchi giorni o per parecchie ore e trasformandola in un’immensa palude. Lo strato di limo la concima e la rende fertile, come succede in Egitto con il Nilo.

Attraversiamo una landa sconfinata dove si è diffusa, come una lebbra, una piccola pianta grassa di colore  grigioverde, che i cammelli mangiano con avidità. Ne scorgiamo, infatti, enormi branchi intenti a  brucarla. Quando passiamo in mezzo a loro, ci guardano con i loro grossi occhi luccicanti. Sembra di essere agli albori del mondo, quando il Creatore esitante gettava sulla terra manciate di razze informi, per giudicare il valore e l’effetto della sua opera. In seguito, le ha a poco a poco distrutte, lasciando sopravvivere, in questo grande continente trascurato che è l’Africa, solo alcuni tipi primitivi, accanto alle giraffe, agli struzzi e ai dromedari dimenticati fra le sabbie.

Ah! Ecco una cosa divertente e graziosa: una cammella ha appena figliato e se ne torna all’accampamento seguita dal suo piccolo. Due piccoli Arabi, il cui viso non arriva al didietro dell’animale nato da poco, lo spingono con dei rami. Cammina già come un grande, lui, su questo terreno ineguale, senza difficoltà né esitazioni. In cima alle sue lunghe gambe porta un corpo da nulla e un collo da uccello, con una testa stupita i cui occhi guardano da un quarto d’ora cose nuove per lui come il giorno, la contrada e la bestia che sta seguendo. Comincia ad annusare la mammella perché la natura, questo animale vecchio di qualche minuto, lo ha fatto così alto per permettergli di raggiungere il ventre ripido di sua madre.

Ve ne sono alcuni vecchi di qualche giorno, altri vecchi di qualche mese, altri ancora molto alti, con il pelo scarmigliato, oppure tutti gialli, grigi o nerastri. Il paesaggio diventa talmente strano che non ho mai visto nulla di simile. A destra e a sinistra vi sono delle file di pietre schierate come soldati, tutte nello stesso ordine e curvate in direzione di Kairouan, ancora invisibile.
Sembrano battaglioni in marcia, queste pietre sistemate in file diritte l’una dietro l’altra, alla distanza di qualche centinaio di passi, che coprono parecchi chilometri. Questo paesaggio in rilievo, inframmezzato da sabbia argillosa, è uno dei più curiosi al mondo. D’altra parte, ha la sua leggenda.

Quando Sidi- Okba giunse in questo sinistro deserto con i suoi cavalieri, decise di accamparsi in questa solitudine. I suoi compagni, sorpresi di vederlo fermarsi in questo luogo, gli consigliarono di ripartire ma lui rispose:
“Dobbiamo restare qui e fondare una città, perché questa è la volontà di Dio.”
Gli fecero notare che non c’era acqua, né legna, nè pietre per costruire. Ma Sidi-Okba li zittì dicendo: “Dio provvederà.”
Il giorno dopo vennero ad annunciargli che un levriere femmina aveva trovato dell’acqua. Si scavò in quel punto e a sedici metri sotto terra si scoprì una sorgente. Ancora oggi essa alimenta il grande pozzo coperto da una cupola dove un cammello fa girare tutto il giorno la manovella elevatrice.

L’indomani, altri Arabi mandati in esplorazione annunciarono a Sidi-Okba di aver scorto delle foreste sulle pendici delle montagne vicine.
Il terzo giorno, infine, i cavalieri partiti in perlustrazione, rientrarono al galoppo gridando che avevano trovato un’armata di pietre in marcia, senza dubbio mandate da Dio.
Malgrado questo miracolo, Kairouan è quasi interamente costruita in mattoni.
La pianura ora è diventata una palude di fango dove i cavalli scivolano, tirano senza riuscire a muoversi, si sfiniscono e sprofondano fino al ginocchio in questa melma vischiosa. Le ruote si piantano fino ai mozzi.
Il cielo è grigio e comincia a piovere, una pioggia fine che avvolge l’orizzonte nella nebbia. Quando ci si inerpica su una delle sette ondulazioni chiamate le sette colline di Kairouan, la strada sembra migliore, ma quando si ridiscende nelle gole essa diventa una cloaca spaventosa. Ad un tratto la vettura si ferma, una delle ruote posteriori è bloccata dalla sabbia.

Bisogna scendere e continuare a piedi. Eccoci dunque sotto la pioggia, sferzati da un vento furioso, alzare a ogni passo un enorme stivale formato dall’argilla che si è attaccata alle nostre scarpe e che appesantisce la nostra marcia, rendendola estenuante. Ogni tanto affondiamo dentro a buche di fango e, senza fiato, malediciamo il gelido sud. E’ noto che per i credenti sette pellegrinaggi a Kairouan valgono quanto un pellegrinaggio alla Mecca e il nostro pellegrinaggio alla città santa ci procurerà forse qualche indulgenza nell’altro mondo se, per caso, il Dio del Profeta è vero.
Dopo un chilometro o due di questo avanzare lento e spossante, intravedo in lontananza davanti a me, nella foschia, una torre sottile e aguzza appena visibile, appena più colorata della nebbia, la cui cima si perde nelle nubi. E’ un’apparizione vaga e affascinante che a poco a poco si precisa, prende una forma più netta e diventa un grande minareto ritto nel cielo, senza che si veda nient’altro attorno o sotto: né la città né le mura né le cupole delle moschee. La pioggia ci sferza il viso e noi andiamo lentamente verso questo faro grigiastro che si leva davanti a noi come una torre fantasma, ma che sparisce subito, ripiombando nello strato di nebbia da cui era appena uscito.

Poi, sulla destra, si disegna nella foschia un monumento con molte cupole: è la moschea detta del Barbiere. Infine, appare la città, una massa indistinta e imprecisa, dietro al velo di pioggia. Il minareto sembra meno grande di prima, come se fosse sprofondato dentro alle mura, dopo essersi alzato fino al firmamento per guidarci verso la città.
Oh! La città triste, perduta nel deserto, in questa solitudine arida e desolata! Nelle strade strette e tortuose gli Arabi, ci guardano passare al riparo nelle bottegucce dei venditori e quando incontriamo una donna, la sua figura nera e spettrale in mezzo ai muri ingialliti dagli acquazzoni sembra la morte che cammina.

L’ospitalità ci è offerta dal governatore tunisino di Kairouan, Si Mohammed-el-Marabout, generale del bey, un musulmano molto nobile e molto devoto, che ha già effettuato tre volte il pellegrinaggio alla Mecca. Con una gentilezza composta e premurosa ci conduce verso le camere destinate agli stranieri, dove troviamo dei grandi divani e delle stupende coperte arabe nelle quali ci si avvolge per dormire. Per farci onore, uno dei suoi figli ci porta personalmente tutto ciò di cui abbiamo bisogno.
La sera ceniamo dal controllore civile e console francese, dove troviamo un’accoglienza piacevole e festosa, che ci riscalda e ci consola del nostro triste viaggio.

15 dicembre
Non è ancora l’alba quando uno dei miei compagni di viaggio mi sveglia. Decidiamo di andare subito al bagno turco, prima di visitare la città.
Per le strade circolano già delle persone, perché gli Orientali si alzano prima del sorgere del sole e fra le case scorgiamo un bel cielo pallido e terso, pieno di promesse di calore e di luce.
Percorriamo alcune stradine anguste, poi ancora altre, oltrepassiamo il pozzo dove il cammello prigioniero sotto alla cupola gira senza fine la manovella per tirare su l’acqua ed entriamo in una casa buia, dai muri spessi e dall’ atmosfera umida, calda e un po’ soffocante.

Dapprima non vediamo nulla, poi scorgiamo degli Arabi che stanno sonnecchiando sulle stuoie. Il proprietario, dopo averci fatti svestire, ci introduce nelle stufe, simili a segrete nere e con le volte, dove la luce del giorno nascente cade dall’alto attraverso un vetro stretto. Il pavimento è ricoperto da uno strato d’acqua vischioso, sul quale non si può camminare senza rischiare, a ogni passo, di scivolare e di cadere.
Quando torniamo all’aria aperta dopo il massaggio, siamo storditi da un’ebbrezza gioiosa. Il sole, ormai alto nel cielo, illumina le strade di Kairouan la santa, bianca come tutte le città arabe, ma più selvaggia, più fortemente caratterizzata, più segnata dal fanatismo, sorprendente nella povertà visibile e nella miserabile e sdegnosa nobiltà.

Gli abitanti sono passati attraverso un’orribile carestia e dappertutto si vede un’aria di miseria, che sembra dilagare anche sulle case. Dentro a botteghe grandi come scatole, nelle quali i mercanti stanno accovacciati alla turca, si vende ogni sorta di piccole cose, come nelle borgate: datteri di Gafsa e del Souf, agglomerati in una pasta vischiosa incartata in grossi pacchetti, dai quali i venditori, seduti sulla stessa panca, staccano piccoli pezzi; legumi; peperoncini; paste. Nei suk, i lunghi bazar tortuosi con le volte, si vendono delle stoffe, dei tappeti, dei finimenti ricamati d’oro e d’argento, delle babbucce di cuoio giallo, fabbricate da un numero inimmaginabile di ciabattini. Prima dell’occupazione francese, gli ebrei non avevano potuto stabilirsi in questa città impenetrabile. Oggi, essi vi pullulano e la depredano. Possiedono già i gioielli delle donne e i titoli di proprietà di una parte delle case, sulle quali essi hanno prestato soldi e di cui sono diventati velocemente proprietari grazie a un sistema di rinnovo e di moltiplicazione del debito, praticato con abilità e con una rapacità instancabile.

Andiamo verso la moschea Djama-Kebir o di Sidi-Okba, il cui alto minareto domina la città e il deserto, che la isola dal mondo. L’edificio ci appare all’improvviso, dopo una curva, immenso, pesante, sostenuto da enormi contrafforti, una massa bianca, imponente, d’una bellezza inspiegabile e selvaggia. Si entra dapprima in un magnifico cortile, circondato da un doppio chiostro con due file di eleganti colonne romane e romaniche. Si ha l’impressione di essere in un bel monastero italiano.       
La moschea propriamente detta è a destra e prende luce da questo cortile attraverso diciassette porte a doppio battente, che noi abbiamo fatto aprire prima di entrare.
Vi sono soltanto tre edifici al mondo che mi hanno dato l’emozione, inattesa e fulminante, di questa barbara e sorprendente costruzione: Mont Saint Michel, San Marco a Venezia e la cappella Palatina a Palermo.

Queste opere mirabili sono frutto del ragionamento e dello studio di grandi architetti sicuri del loro effetto, senza dubbio devoti, ma prima di tutto artisti, ispirati dall’amore per le linee, le forme e la bellezza decorativa, oltre che dall’amore per Dio. Qui, è un’altra cosa. Un popolo fanatico e nomade, a malapena capace di costruire un muro, arrivato su questa terra coperta di rovine lasciate dai predecessori, ha raccolto dappertutto quello che gli è parso più bello. Poi, mosso da un’ispirazione sublime, ha eretto una dimora al suo Dio, perfetta e magnifica come le più pure concezioni dei grandi tagliatori di pietre, fatta di pezzi presi dalle città cadenti.
Davanti a noi appare un tempio smisurato, dall’aspetto di foresta sacra, dove centottanta colonne di onice, di porfido e di marmo reggono le volte di diciassette navate, corrispondenti alle diciassette porte.

Lo sguardo si sofferma e si perde in questa mescolanza di pilastri rotondi e sottili dall’eleganza impeccabile, le cui sfumature si combinano e si armonizzano e i cui capitelli bizantini, di scuola africana e orientale, hanno una lavorazione rara e una infinita diversità. Alcuni mi sono sembrati di una bellezza perfetta; il più originale è forse quello che rappresenta una palma piegata dal vento.
Man mano che avanzo in questa dimora divina, le colonne sembrano spostarsi, girarmi attorno e formare diverse figure d’una regolarità mutevole.
Nelle nostre cattedrali gotiche, l’effetto è ottenuto dalla sproporzione voluta fra l’altezza e la larghezza. In questo tempio, invece, l’armonia deriva dalla proporzione e dal numero di questi fusti leggeri che reggono l’edificio, lo riempiono, lo popolano, lo rendono quello che è e creano la sua grazia e la sua grandezza. La loro moltitudine colorata dà all’occhio l’impressione dell’infinito mentre l’estensione poco elevata dell’edificio dà all’anima una sensazione di pesantezza. In questa vastità ci si sente schiacciati dalla potenza di Dio.

Il Dio che ha ispirato questa superba opera d’arte è quello che ha dettato il Corano, non quello dei Vangeli. La sua morale ingegnosa si estende più che elevarsi, ci stupisce per la sua diffusione più di quanto ci colpisca per la sua elevazione.
Dappertutto troviamo dei particolari notevoli. La camera del sultano, che entrava da una porta riservata, ha un muro di legno intarsiato da cesellatori. Anche il pulpito, in pannelli curiosamente intagliati dà un effetto molto felice e il mihrab 1) che indica la Mecca è una splendida nicchia in marmo scolpito, dipinto e dorato, con una decorazione e uno stile squisiti.
Accanto a questo mihrab, vi sono due colonne talmente vicine che lo spazio fra di loro è appena sufficiente a lasciar passare un uomo. Secondo alcuni, chi riesce a sgusciarvi in mezzo, viene guarito dai reumatismi; secondo altri, egli ottiene dei benefici di tipo più interiore.

Davanti alla porta centrale della moschea, la nona, sia da destra che da sinistra si innalza, sull’altro lato del cortile, il minareto, che ha centoventinove gradini. Li saliamo.
Dall’alto, Kairouan, sembra una scacchiera di terrazze di gesso, da cui sgorgano le grosse cupole delle moschee e delle kubba. Tutt’intorno, si stende a perdita d’occhio, il deserto giallo e infinito, mentre, vicino ai muri, appaiono le macchie verdi dei campi di cactus. Questo orizzonte immensamente vuoto è triste e più angosciante dello stesso Sahara.
Sembra che un tempo la città fosse molto più grande e si fanno ancora i nomi dei quartieri che sono scomparsi: Draa-el-Temmar, la collina dei mercanti di datteri; Draa-el-Ouiba, la collina dei misuratori di grano; Draa-el-Kerrouia, la collina dei mercanti di spezie; Draa-el- Gatrania, la collina dei mercanti di catrame; Derb-es-Mesmar, il quartiere dei mercanti di chiodi. Fuori città, in posizione isolata, a un chilometro di distanza vi è la zaouia 1) o, meglio, la moschea di Sidi-Sahab, il barbiere del Profeta, che attira da lontano lo sguardo. Ci mettiamo in marcia verso di essa.

Completamente diversa da Djama-Kebir, che abbiamo appena visitato, è la più graziosa, colorata e civettuola delle moschee, l’esempio più perfetto di arte decorativa araba che io abbia visto.
Salendo una scala di maioliche antiche di stile delizioso, si entra in una piccola sala d’ingresso lastricata e ornata nello stesso modo. Si giunge poi in un cortile lungo e stretto, circondato da un chiostro con le arcate a ferro di cavallo, ricadenti su delle colonne romaniche, che nelle giornate luminose danno un senso di abbacinamento per il sole che scende in strisce dorate su tutti questi muri interamente coperti di maioliche dai colori mirabili e dalla varietà infinita. Il grande cortile quadrato in cui si arriva subito dopo ne è interamente decorato. La luce risplende e colora di fuoco questo immenso palazzo di smalto, illuminando i disegni e le colorazioni della ceramica orientale con lo sfavillio del cielo sahariano. Al di sopra, corrono delle fantasie di arabeschi inesprimibilmente delicate. In questo cortile fiabesco si apre la porta del santuario che contiene la tomba di Sidi-Sahab, compagno e barbiere del Profeta, del quale conservò fino alla morte tre peli della barba sul petto.

Questo santuario, ornato di disegni regolari in marmo bianco e nero e di volute sulle quali sono incise delle iscrizioni, pieno di folti tappeti e di bandiere, mi è parso meno bello, meno straordinario dei due indimenticabili cortili che abbiamo appena attraversato.
Uscendo, oltrepassiamo un terzo cortile pieno di giovani. E’ una specie di seminario musulmano, una scuola di fanatici.
Le zauias sono molto numerose nei paesi islamici e rappresentano il cuore, la sede degli innumerevoli ordini e confraternite, a cui fanno capo le diverse pratiche di culto dei credenti. Le principali di Kairouan (non parlo delle moschee che appartengono solo a Dio) sono: la zauia di Si-Mohammed-Elouani; la zauia di Sidi-Abd-el-Kader-ed-Djilani, il più grande santo dell’Islam e il più venerato; la zauia el-Tidjani; la zauia di Si-Hadid-el Khrangani; la zauia di Sidi-Mohammed-ben-Aissa di Meknes dove sono custoditi dei tamburelli, dei derbuka,  delle sciabole, delle punte di ferro e altri strumenti indispensabili alle cerimonie selvagge degli Aissaua.

Gli innumerevoli ordini e confraternite dell’Islam ricordano in molti punti i nostri ordini cattolici. Sotto la protezione di un marabut venerato, si collegano al Profeta attraverso una catena di dottori devoti/ religiosi, che gli Arabi chiamano “Selselat”. Soprattutto a partire dall’inizio del secolo, essi hanno avuto un’espansione considerevole e sono il baluardo più temibile della religione maomettana contro la civiltà e la dominazione europea.
Il comandante Rinn li ha enumerati e analizzati in modo molto completo in un opuscolo, sotto il titolo Marabut e khouan. Nel suo libro trovo alcuni testi curiosi sulle dottrine e sulle pratiche di queste confederazioni, ognuna delle quali sostiene di aver conservato l’obbedienza ai cinque comandamenti del Profeta e di far discendere da lui la sola via per raggiungere l’unione con Dio, che è lo scopo di tutti gli sforzi religiosi dei musulmani.
Ma nonostante la loro pretesa di ortodossia assoluta e di purezza dottrinale, questi ordini e confraternite hanno delle usanze, degli insegnamenti e delle tendenze molto divergenti.

Alcune potenti associazioni religiose sono dirette da studiosi di teologia dalla vita austera, uomini veramente superiori, istruiti nella teoria, ma diplomatici pericolosi nelle loro relazioni con noi, che governano con rara abilità le scuole di scienza sacra, di morale elevata e di guerra agli Europei. Altre sono gruppi bizzarri di fanatici o di ciarlatani, che hanno l’aria di compagnie di giocolieri religiosi, a volte esaltati e convinti, a volte puri saltimbanchi, che sfruttano la stupidità e la fede degli uomini.
Come ho detto, l’unico scopo degli sforzi di ogni musulmano è l’unione intima con Dio. Diversi percorsi mistici conducono allo stato perfetto e ogni confederazione dispone della preparazione necessaria per raggiungerlo. In generale, il procedimento porta l’adepto a uno stato di abbrutimento assoluto, ne fa uno strumento cieco e docile nelle mani del capo. A capo di ogni associazione vi è uno sceicco, maestro dell’ordine: “Tu sarai fra le mani del tuo sceicco come il cadavere fra le mani del lavatore di morti. Obbedisci a tutto quello che ti ordina perché è Dio stesso che comanda attraverso la sua voce. Disobbedirgli significa incorrere nella collera di Dio. Non dimenticare che sei il suo schiavo e che non devi far nulla senza suo ordine. Lo sceicco è un uomo caro a Dio, superiore a tutte le creature e sottostante solo ai profeti per importanza. Non devi vedere che lui, dappertutto.

Bandisci dal tuo cuore ogni pensiero che non abbia come oggetto Dio o lo sceicco.
Al di sotto di questo personaggio sacro vi sono i moquaddem, vicari dello sceicco, propagatori della dottrina.
Infine, i semplici iniziati all’ordine si chiamano khouan, i fratelli.
Per raggiungere lo stato di allucinazione nel quale l’uomo si confonde con Dio, ogni confraternita ha la sua orazione speciale o, meglio, la sua ginnastica d’abbrutimento, chiamata dirkr. E’ quasi sempre un’invocazione molto breve o, meglio, l’enunciato di una parola o di una frase che deve essere ripetuta un numero infinito di volte.
Accompagnandosi con movimenti regolari della testa e del collo, gli adepti pronunciano per duecento, cinquecento, mille volte di seguito il nome di Dio e la formula di tutte le loro preghiere: “Non c’è altra divinità che Dio”, aggiungendo alcuni versetti il cui ordine è il segno di riconoscimento della confraternita.
Al momento della sua iniziazione, il neofita si chiama talamid. Dopo l’iniziazione diventa mourid, poi faqir, quindi sufi, satek e infine med jedoub, il rapito, l’allucinato. Quando lo spirito si separa dalla materia e subentra uno stato di eccitazione isterica e mistica, si manifesta nell’individuo l’ispirazione o la follia. L’uomo non appartiene più alla vita fisica, per lui esiste solo la vita spirituale e non ha più bisogno di osservare le pratiche del culto.

Al di sopra di questo stato c’è quello di touhid, che corrisponde alla suprema beatitudine, all’identificazione con Dio.
Anche l’estasi ha i suoi gradi, descritti da Cheick-Snoussi, affiliato all’ordine dei Kheluatya, i visionari interpreti dei sogni. Si possono fare strani accostamenti fra questi mistici e quelli cristiani.
Ecco cosa scrive Cheik.Snoussi: “…L’adepto gode della manifestazione di luci che sono per lui il più perfetto dei talismani. Suddivise in diverse serie, che costituiscono i sette gradi attraverso i quali si giunge allo stato perfetto dell’anima, queste luci sono settantamila.
Il primo grado è quello dell’umanità. Vi si scorgono diecimila luci dal colore scialbo, visibili a coloro che le raggiungono. Esse si mescolano le une alle altre…
Per raggiungere il secondo grado, occorre che il cuore sia santificato. In questo secondo stadio, detto dell’estasi passionale, si scoprono altre diecimila luci di colore blu chiaro.

Si arriva al terzo grado, che è l’estasi del cuore. In questa fase si vede l’inferno e le sue caratteristiche,  con diecimila luci rosse come la fiamma. Questo stadio permette di vedere i geni e i loro attributi. I sette stati spirituali di cui può godere il cuore, sono accessibili solamente ad alcuni affiliati.
Salendo di un altro grado, si vedono diecimila nuove luci, corrispondenti allo stato di estasi dell’anima immateriale. Le sorgenti luminose, nelle quali si scorgono le anime dei profeti e dei santi, hanno un colore giallo molto forte.  
Il quinto grado è quello dell’estasi misteriosa. Vi si contemplano gli angeli e le diecimila luci sono d’un bianco abbagliante.
Il sesto grado è quello dell’estasi di ossessione. Le diecimila luci hanno il colore degli specchi limpidi e si è in preda a un delizioso rapimento dello spirito, che va sotto il nome di el-khadir e che rappresenta l’inizio della vita spirituale. Solo in questo momento si vede il profeta Maometto.

Quando si raggiunge il settimo grado, quello della beatitudine, si arriva alle ultime diecimila luci nascoste. Queste luci sono verdi e bianche, ma subiscono delle trasformazioni, assumendo prima il colore delle pietre preziose, poi una tinta chiara e infine un colore che non somiglia a nessuno di quelli conosciuti perché è inesistente sulla terra, ma è diffuso in tutto l’universo. In questo stadio si svelano gli attributi di Dio, le cose terrene spariscono e si ha la sensazione di non appartenere più a questo mondo.
Questi gradi non ricordano forse i sette castelli del cielo di Santa Teresa e i colori non corrispondono forse ai sette gradi dell’estasi? Ecco lo speciale procedimento seguito dai kheluatya per raggiungere lo stato di alterazione dello spirito: “Ci si siede a gambe incrociate e si ripete per un certo tempo: “non vi è altro Dio all’infuori di Allah” portando la bocca alternativamente sopra la spalla destra, davanti al cuore, sotto il seno sinistro. Poi si recita un’invocazione che consiste nell’articolare i dieci nomi di Dio riferiti alla sua grandezza e alla sua potenza, citandoli in un determinato ordine: “Lui, Giusto, Vivente, Irresistibile, Benefattore per eccellenza, Provvidenza, Colui che apre alla verità i cuori induriti degli uomini, Unico, Eterno, Immutabile.”

Dopo ogni invocazione, gli adepti devono recitare cento e più volte di seguito certe orazioni.
Per dire le loro preghiere particolari, essi si mettono in cerchio. Il recitante pronuncia ripetutamente la parola Lui, spingendo in avanti la testa verso il centro del cerchio, poi piegandola verso destra, quindi rovesciandola indietro e ruotandola verso sinistra. Uno del gruppo ripete l’invocazione e tutti gli altri lo seguono in coro, oscillando la testa a destra e a sinistra.
Paragoniamo queste pratiche con quelle dei Quadrya: “Seduti a gambe incrociate, essi toccano prima l’estremità del piede destro e poi l’arteria principale che circonda l’addome, chiamata el-kias. Dopo, mettono sul ginocchio la mano aperta con le dita allargate e portano il viso prima verso la spalla destra dicendo ha, poi verso la spalla sinistra, dicendo hou, infine lo abbassano dicendo hi. Quindi, ricominciano da capo. E’ importante, anzi, indispensabile, che la pronuncia di questi suoni si prolunghi quanto lo permette il fiato.

Dopo la purificazione, egli continua nello stesso modo con il nome di Dio, fino a quando la sua anima può essere soggetta a rimprovero.  Allorchè egli è disposto all’obbedienza, articola il nome hou. Infine, quando la sua anima ha raggiunto il grado di perfezione desiderato, egli può dire l’ultimo nome hi.”
Queste preghiere si chiamano ouerd-debered e devono condurre all’annientamento dell’individualità dell’uomo, assorbito nell’essenza di Dio, vale a dire a quello stato nel quale si giunge alla contemplazione di Dio e dei suoi attributi.
Di tutte le confraternite algerine, è quella degli Assaiua che attira maggiormente la curiosità degli stranieri.

Si conoscono le pratiche spaventose di questi giocolieri isterici che, dopo essersi esercitati per giungere all’estasi formando una sorta di catena magnetica e recitando le loro preghiere, mangiano le foglie spinose dei cactus, i chiodi, le schegge di vetro, gli scorpioni e i serpenti. Spesso questi folli divorano, con delle spaventose convulsioni, un montone vivo, con tutta la pelle, non lasciando a terra che qualche osso o si trafiggono le guance e il ventre con punte di ferro. Dopo la morte, quando si fa loro l’autopsia, si trovano ogni sorta di oggetti fra le pareti del loro stomaco.
Ebbene, nei testi degli Aissaua si trovano le preghiere e gli insegnamenti più poetici di tutte le confraternite islamiche.
Cito alcune frasi dal testo del comandante Rinn:
“Un giorno il Profeta, disse a Abou-Dirr-el-R’ifari: “O Abou-Dirr, il riso dei poveri è una forma di adorazione di Dio e i loro giochi un riconoscimento; il loro sonno è una forma di carità.”
Lo sceicco ha detto anche:
“Pregare e digiunare nella solitudine e non avere alcuna compassione nel cuore, si chiama, nella retta via, ipocrisia.

L’amore è il grado più completo della perfezione. Colui che non ama non ha fatto progressi nel cammino della propria realizzazione. Vi sono quattro specie d’amore: l’amore dell’intelligenza, l’amore del cuore, l’amore dell’anima e l’amore misterioso…”
Esiste forse una definizione più completa, più sottile e più bella dell’amore?
Potremmo continuare all’infinito con le citazioni.
Accanto a questi ordini mistici, che appartengono ai grandi riti ortodossi musulmani, esiste una setta dissidente, quella degli Ibaditi o Beni_Mzab, che hanno delle caratteristiche curiose.
I Beni-Mzab vivono nella parte più arida del Sahara, a sud dei nostri possedimenti algerini, in una piccola regione detta Mzab, che essi hanno reso fertile con sforzi prodigiosi.

In questa piccola repubblica di puritani dell’Islam si trovano, sorprendentemente uniti, i principi che governano le comuni socialiste e la forma di organizzazione della chiesa presbiteriana scozzese. La loro morale è rigida, intollerante e inflessibile, hanno orrore dello spargimento di sangue, ammesso solo per difendere la fede. La realtà quotidiana degli atti della vita, il contatto accidentale o volontario con la mano di una donna o con un oggetto umido, sporco o proibito sono colpe gravi, che richiedono abluzioni particolari e prolungate.
Il celibato, causa di dissolutezza, la collera, i canti, la musica, il gioco, la danza, ogni tipo di lusso, il tabacco, il caffè preso in luogo pubblico, sono peccati che possono far incorrere, se si persevera, in una terribile scomunica detta tebria.  

Contrariamente alla dottrina della maggior parte dei congregazionisti musulmani, che sostengono che le pratiche religiose, le orazioni e l’esaltazione mistica sono sufficienti a salvare il fedele, qualunque siano state le sue azioni, gli Ibaditi ritengono che l’unico modo per guadagnare la salvezza eterna sia la purezza della vita. Essi spingono all’eccesso l’osservanza alle prescrizioni del Corano, trattano da eretici i dervisci e i fachiri, non credono nell’efficacia dell’intercessione presso Dio, maestro giusto e inflessibile, dei profeti e dei santi, dei quali venerano tuttavia la memoria. Essi negano gli ispirati e gli illuminati e non riconoscono neanche all’imam il diritto di amnistiare i suoi simili, perché solo Dio può essere giudice della gravità degli errori e della sincerità del pentimento.
D’altra parte gli Ibaditi, che discendono dagli assassini di Alì, genero del Profeta, sono dei scismatici, appartengono anzi al più antico degli scismi dell’Islam.   

Ma gli ordini che in Tunisia contano il maggior numero di aderenti sembrano essere, insieme con gli Aissaoua, quelli dei Tijanya e dei Quadrya. Quest’ultimo è stato fondato da Abd-el-Kader-el-Djiuani, l’uomo più santo dell’Islam dopo Maometto.
Le zauia di questi due marabut, che visitiamo dopo quella del barbiere, non possiedono neanche lontanamente l’eleganza e la bellezza dei due monumenti che abbiamo visto prima.          
 
16 dicembre
Uscendo da Kairouan per andare a Sousse, l’impressione di tristezza della città santa aumenta.
Dopo i vasti cimiteri, che sono dei campi di pietre, vi sono le colline di immondizia, che contengono i detriti della città accumulatisi nei secoli. Poi ricomincia la pianura paludosa, dove si cammina spesso sui carapaci di piccole tartarughe, quindi vi è la landa dove pascolano i cammelli.
Dietro di noi, la città con le sue cupole, le moschee, i minareti che si innalzano in questa triste solitudine, sembra un miraggio nel deserto che, a poco a poco, si allontana e sparisce.

Dopo molte ore di marcia, ci fermiamo vicino a una kubba, che sorge in un boschetto di ulivi. Siamo a Sidi-l’Hanni ed io non ho mai visto il sole trasformare una cupola bianca in una simile meraviglia di colori. E’ bianca? Sì, di un bianco accecante. Tuttavia, su di essa la luce si scompone in modo così strano, che vi si scopre una fantasmagoria di sfumature misteriose, più evocate che visibili, più illusorie che reali e così delicate e gradevoli, immerse nel loro biancore niveo, che non le si vede subito, ma solo dopo che l’abbagliamento e la sorpresa del primo sguardo sono cessati. Allora non si vede più nient’altro e più si guarda, più si accentuano, così numerose, diverse, potenti ed allo stesso tempo invisibili. Sul bordo scorrono onde d’oro, che vanno a spegnersi in un bagno lilla, leggero come un velo di vapore, attraversato qua e là da strisce bluastre. L’ombra immobile di un ramo forse è grigia, forse verde, forse gialla, non so.

Sotto il cornicione, il muro sembra violetto e immagino che l’aria attorno alla cupola sia color malva, questa cupola sfavillante che sembra quasi rosa quando la si contempla troppo e i cui toni così delicati e chiari si mescolano davanti agli occhi, offuscati dal suo bagliore troppo intenso. Chi riuscirà a conoscerli , mostrarli, dipingerli? Per quanti anni bisognerà immergere i nostri occhi e il nostro pensiero in queste colorazioni inafferrabili, così nuove per i nostri organi abituati alle gradazioni e ai riflessi europei, prima di capirle, di distinguerle e di esprimerle fino a dare l’emozione completa della verità a coloro che guarderanno le tele dove saranno fissate da un pennello d’artista?

Entriamo adesso in una regione meno brulla, dove cresce l’ulivo. A Moureddin una bella ragazza, vicino a un pozzo, ride mettendo in mostra i denti al nostro passaggio. Un po’ più lontano, superiamo un elegante borghese di Sousse che rientra in città sul suo asino, seguito da un negro che gli porta il fucile. Egli sta sicuramente tornando dal suo uliveto o dalla sua vigna e, su  questa strada immersa fra gli alberi, costituisce un quadro armonioso. L’uomo è giovane, vestito d’una giacca verde e un gilet rosa, in parte nascosti sotto a un burnus di seta drappeggiato sulle spalle e sui fianchi. Cavalca come una donna e percuote i fianchi dell’asino che trotterella con le gambe inguainate da calze d’un bianco immacolato, mentre ha ai piedi due calzari verniciati, che non aderiscono per nulla ai talloni e non si sa come facciano a stare a posto.
Il piccolo negro, vestito di rosso, corre dietro all’asino del suo padrone col fucile in spalla e con un’agilità selvaggia.

Ecco Sousse.
Ma io l’ho già vista questa città! Sì, quand’ero molto giovane, ho avuto questa visione luminosa in collegio, quando studiavo le crociate sulla Storia di Francia del Burette. Ecco perché la conosco da così tanto tempo! Dietro al baluardo merlato, alto e sottile, munito di torri e di porte rotonde essa è piena di Saraceni. E questo muro, ai piedi del quale si aggirano uomini col turbante,  è proprio quello illustrato nel mio libro, così netto e regolare che sembra fatto di cartone. Com’è bello, così chiaro ed entusiasmante!
Varrebbe la pena di fare questo viaggio solo per vedere Sousse. La vettura non può entrare nelle viuzze strette e capricciose di questa città del passato, perciò segue la muraglia, tutta uguale e merlata, con le torri quadrate, che arriva fino alla costa, poi fa una curva, segue la riva, gira ancora, risale e continua il suo percorso circolare senza mai perdere il suo aspetto di baluardo saraceno. I suoi merli e le sue torrette, una ogni dieci merli, seguono la disposizione dei grani del rosario. Le mura racchiudono nel loro cerchio abbagliante la città dalle case di gesso, come una corona di carta bianca, che in basso è bagnata dai flutti e in alto è stagliata contro il cielo.

Dopo aver percorso la città con il suo incredibile groviglio di stradine, rimane ancora un’ora di luce, perciò andiamo a visitare gli scavi della necropoli di Hadrumeto, a dieci minuti dalle porte, dove sono stati scoperti dei vasti sotterranei, contenenti fino a venti sepolcri con tracce di pitture murali. Le ricerche sono fatte da ufficiali diventati archeologi ostinati, che renderebbero un grande servizio a quest’arte arcaica se il loro zelo non fosse condizionato/ represso dalle misure vessatorie dell’amministrazione delle belle arti.
Nel 1860, in questa necropoli è stato portato alla luce un curioso mosaico raffigurante il labirinto, col Minotauro al centro e Teseo e Arianna a bordo di una barca, vicino all’ingresso. Il bey volle portare nel suo museo questo pezzo eccezionale, ma durante il trasporto esso venne distrutto. Mi mostrarono la sua fotografia, una delle quattro esistenti, fatta su un schizzo/disegno del sig. Larmande, un disegnatore che lavora nell’amministrazione pubblica incaricata della viabilità.     

Ritorniamo a Sousse al tramonto per cenare dal controllore civile di Francia, uno degli uomini più informati e più interessanti da ascoltare, che ci parla degli usi e costumi di questo paese.
Dalla sua abitazione si domina tutta la città con la sua cascata di tetti quadrati, pitturati a calce, sui quali corrono gatti neri e dove ogni tanto si muovono esseri drappeggiati in stoffe pallide e colorate, simili a fantasmi.  
Qua e là, delle grosse palme fanno capolino fra le case e allargano il bouquet verde dei rami sopra al bianco uniforme delle case.
Sotto alla luce della luna, Scusse somiglia spuma d’argento che rotola verso il mare, è la realizzazione del sogno prodigioso di un poeta, l’apparizione inverosimile di una città fantastica il cui chiarore sale verso il cielo.

Vaghiamo a lungo per le strade, prima di entrare in un caffè moro ancora aperto. E’ pieno di uomini accovacciati per terra o seduti sulle panche coperte di stuoie, attorno a un narratore, un vecchio grasso dall’occhio furbo, che parla con una mimica così buffa che basterebbe da sola a divertire. Sta raccontando una farsa, la storia di un impostore che volle farsi passare per un marabut, ma venne smascherato dall’imam. I suoi ingenui uditori sono molto attratti dal racconto e lo seguono con un’attenzione appassionata, interrotta solo da scoppi di risa.
Usciamo e ci rimettiamo in marcia, non potendoci decidere ad andare a dormire in questa splendida notte.
In una strada stretta, mi fermo davanti a una bella casa orientale. Oltre la porta aperta, si vede una grande scala diritta e decorata con maioliche, illuminata dall’alto da una luce invisibile, un pulviscolo luminoso che cade chissà da dove. Sotto questo indefinibile chiarore, gli scalini smaltati attendono qualcuno. Forse un vecchio musulmano con la pancia, più facilmente, credo, essi invocano il piede di un innamorato.

Non mi è mai capitato di immaginare, prefigurare e comprendere il senso di attesa in modo così profondo, come davanti a questa porta aperta e a questa scala vuota, dove brilla una lampada invisibile.
Fuori, dal muro illuminato dalla luna sporge uno di quei grandi balconi chiusi, chiamati barmakli con due aperture scure al centro e dietro le ricche inferriate del moucharaby, / contornato da una ringhiera. Forse là dentro c’è una Giulietta araba che veglia con il cuore palpitante, che sta ascoltando e ci detesta. Ma il suo desiderio sensuale non è di quelli che nei nostri paesi salirebbero alle stelle, in notti come questa. Nell’isola di Djerba è nata la leggenda dei Lotofagi e in questa terra [languida ed avvincente, che infiacchisce, l’aria è più dolce che in qualsiasi altro luogo, il sole più caldo, il giorno più chiaro, ma il cuore non sa amare. Le donne belle e ardenti ignorano le nostre tenerezze, la loro anima semplice rimane estranea alle emozioni sentimentali, i loro baci, si dice, non fanno nascere il sogno.      
 
     
 
       
 
 
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